Giannidi una vita senza frastuono
Non è una parentesi.
Nemmeno un presagio, né una pausa felice.
Ci sto pensando da giorni, da quando è arrivato il bisogno assolutamente improrogabile di trovare le parole per raccontarlo. Anche se, ad essere sincero, questa necessità è stata istigata da chi non è me, o forse sì, lo è più di quanto io sia io. Comunque, non riesco a connetterlo a nessuna esperienza passata, nessun desiderio futuro e, colmo dei colmi, non becco neanche una parola, cioè un insieme disciplinato e consequenziale di lettere, per descriverlo. Perché se ci fosse un vocabolo, anche uno solo, che decifri ciò che mi accade, sarebbe una figata. Chi se ne frega poi se quelle linee rette, curve e semicurve si collegano a ciò che davvero esiste: non ciò che accade, ma come lo si racconta, è il cuore della questione.
E sì che ne ho avuto di tempo in queste ultime settimane: lassù nella luce, sempre nella luce, ossessivamente nella luce, nel gigantesco utero materno che si chiama Trollfjord, davanti all’unico ghiacciaio al mondo che invece di sciogliersi avanza – e come avanza, appena lo sfiori con lo sguardo lui parte e viene a prenderti e ti dice: ‘arrivo, prima o poi arrivo, preparati’.
Però è così, Gianni: scrivo di te ma non so come spiegarti al mio mondo.
Sei arrivato di soppiatto e di sponda, non all’improvviso, non con stupore. Un nonno come ce ne sono tanti che incontro a scuola, oggi passo io a prenderlo, la mamma è al lavoro, le scarpe da ginnastica sono rimaste a casa – posso venire dopo a lasciarle? – i soldi per la gita sono in una busta dentro al diario. E poi comodamente, gli anni passano, la scuola si conclude per i nipoti, i genitori diventano amici e piano piano piano una pizza qui, un mango là, un gelato altrove. Tutto chiaro, tutto evidente.
Appunto.
Ma come faccio a spiegarmi questa verità che ho ancora da comprendere e precisare? Nel momento stesso in cui penso a qualcosa che può aiutarmi a decifrare in modo superiore ciò che vivo grazie a te, Gianni, si appanna tutto, come gli occhiali sporchi di ditate e lo specchio del bagno dopo una doccia lunga, troppo lunga. Devo solo arrendermi allora, stare buono, dare un taglio a tutto il frastuono e ospitare. Perché prende dimora dentro di me, senza bussare, qualcosa di nuovo: non è una postilla né un bonus, è alzare il piede dal pedale di risonanza, non aggiungere sale, le mani ferme mentre tutti applaudono. L’ho sentito ieri, proprio ieri, tutto questo che non si lascia nominare, ma risuona ancora oggi come se si fosse adagiato sul pavimento fresco e pulito in questo preciso istante, con premura, tra il sonno e la veglia, intanto che sono tutto sudaticcio per il calore che si confonde con la luce, le fusa della gatta tra le gambe che si sente a casa, basta essere a casa, basta essere, può bastare così, essere, essere a casa e null’altro e basta.
Qualche minuto di euforica, silenziosa assenza dal frastuono: dov’è la paura della fine, dove sono le preoccupazioni per il futuro, chi cacchio ha nascosto il passato, le cicatrici, i sogni infranti? Perché ho fame, perché andrà tutto bene, sempre e comunque, perché ci sono sacchi e sporte di leggerezze e sorrisi in giro? Dov’è finita la forza di gravità?
Ho tollerato questa bizzarra e sapientona forma di quiete che si dà un po’ di arie e ti guarda dall’alto in basso e mi dice: ‘arrivo, sono arrivata, preparati’. Spunta da te, Gianni, da quel tuo modo spaventoso di stare bene al mondo quando fai stare bene gli altri, che non è generosità, non è bontà d’animo: non ne hai bisogno, non lo eroghi, magari neppure ne sei conscio. Ti appartiene.
La vita è non riuscire neppure a guardarti mentre prepari per me, solo per me, un pesce alla griglia: non mangio come gli altri e non t’interessa niente il perché e il per come, non importa l’origine e il senso; ciò che conta, e non puoi farne a meno, non puoi essere di un millimetro inferiore, è andarlo a prendere la mattina apposta perché sia fresco, preparare le braci all’aperto quando il sole infiamma, seguirne la cottura minuto dopo minuto, scegliere i tempi perché arrivi in tavola nel momento perfetto rispetto a tutti gli altri che non si nutrono di pesce – poveri loro, la vita è goderti tutto questo intanto che lo fai perché è così che si respira.
Banale, troppo banale tirare in ballo la generosità, la predisposizione naturale, l’essere buoni dentro, cioè in quel luogo che non si capisce mai dove cazzo si trova. Non si tratta di questo. È che sprigioni, insieme a una gamba che ti fa zoppicare e a un eloquio claudicante, la certezza di essere stato amato poiché non si vive così se non si è stati amati dalla mamma e dal papà, che per forza sono stati amati dalla mamma e dal papà e così via, a ritroso, indietro, sempre più indietro, lontano, sempre più lontano, sempre amore, sempre verso destra.
L’amore è una linea del tempo, la dedizione orizzontale.
Poi mi alzo e mi sento giovane, bello, simpatico tutto in un botto: si vede che c’è troppo entusiasmo in giro, che qualcosa non quadra. Ritorno sdraiato sul letto, nella stessa posizione di prima: ingenua, malriposta fiducia. Nessun pesce si affaccia più all’orizzonte, nemmeno trovo i bastoncini Findus nel freezer. Siamo semplicemente qui, Gianni, io e te, siamo sempre gli stessi, ovunque io stia, agli antipodi. Ti posso solo vedere da lontano, mi hai solo sfiorato, quel tempo breve e puro per vedere, anzi no per capire, anzi no per vivere, anzi no per desiderare.
Manca il complemento oggetto dopo il verbo ‘desiderare’, lo so.
È questo il tuo dono, Gianni.
Nicola Ferrari