Stayuna felicità purissima
Completamente perso.
Assolutamente dimenticato o almeno, lasciato lì, in un angolo, come citazione da utilizzare ogni tanto in compagnia, quando si scherza sui bei tempi che furono o ci si abbandona al ricordo che appare puntualmente nel pre-cena autunnale: quei venti minuti tra la luce del giorno che ancora esiste e pure il buio, una leggera nostalgia di non si sa cosa, prima della bistecca al sangue con patatine e del dolcificante nel caffè perché fa sempre bene limitarsi con la dolcezza.
Non me lo ricordavo proprio e le rare volte che ritornava, risolvevo la questione dicendomi: non avere i soldi per pagare le bollette, beccarsi un tumore, questi sono i problemi veri, che saranno mai in confronto i tormenti del cuoricino?
Ma il tormento, con e senza soldi, con e senza salute, non è dolore, non è fatica.
Eppure è bastato un aghetto del cavolo e una macchinetta per tatuaggi, per la quinta volta nella vita, a ricordarla la vita: due linee che si intrecciano nella pelle a disegnare una sorta di braccialetto sull’avambraccio, nell’esatta posizione adatta a vederlo sempre, inverno compreso, con la manica della camicia rimboccata e le immancabili esclamazioni: ma non hai freddo? Copriti che poi ti ammali! Non sei più giovane.
Sì, ho freddo, sì, mi ammalo, sì, non sono più giovane, sì, non sono mai stato meglio da quando sono nato.
Il primo istante, una sorpresa: cosa sta succedendo? Perché fa così male? Sono io quello che insiste dal dentista a darsi una mossa per fare tutto in una volta, sono io che aspetto di vomitare dal dolore per i cervicali prima di inghiottire la pastiglia, sono io che resisto anche se non ha senso: il dolore fa male, e certo, ma poi passa, insomma, dai. Eppure c’è qualcosa che non va, è troppo, troppo straziante. Forse ha toccato un punto delicato, un nervo scoperto, sì, forse è così, è solo un momento, una piccola zona del mio corpo, una parte minuscola di una vita intera.
Adesso passa, sposta l’ago, prosegue a recidere la superficie, continua a intrecciare le nostre due vite (amore mio), a scavarle per sempre sul mio corpo, come nelle più retoriche serie alla tele, categoria ‘sentimentali’ o, a discrezione della piattaforma, ‘romantici’.
Le linee però proseguono, si distanziano, si confondono, creano spazi, prima angoli netti, separati e poi curve che si accomodano quiete ma il dolore non si placa, diviene. Come un grido imploso sulla carne, mi è chiaro subito: non ce la faccio, non posso farcela, non sono in grado di sopportare tutto questo, non più, ancora una volta no, insostenibile.
Non incide, marchia.
È uno squarcio.
Una punta che arriva da fuori e ti buca, brucia, e nulla più, ma è l’esatto inverso quello che mi sta accadendo ora, seduto su un lettino, il terapeuta al mio fianco con l’ago in mano: comincia da sotto la pelle, dentro i nervi, in mezzo alle ossa che lacera e, nello stesso identico momento, rimargina con precisione assoluta, determinazione ferrea, totale sicurezza. Non si può fermare questa crepa che si allarga istante dopo istante. Mi amerai? Staremo insieme? Vivrai con me? Saremo felici?
Si muove, si muove da dentro e tutto resta sigillato: non c’è aria lì sotto, tra il braccio e il cuore e qualche stupidissimo nervo che parte, ne sono certo, di fianco alla camicia con le maniche arrotolate, una disuguale all’altra, e si collega direttamente al cervello, facendo chissà quanta strada, quanta strada inutile.
Sono solo sudore e lacrime, sudore, lacrime e saliva: un’infinità di liquidi, cioè di non solidi, che loro sì, vogliono urgentemente scappare da me, non ce la fanno a rievocare quando la vita, quella interiore, moriva e risorgeva ogni giorno, per mesi e mesi: la fine del mondo, la gioia assoluta, la fine del mondo, la gioia assoluta. Ogni ininterrotto minuto per milioni di stagioni, con lo stomaco perennemente bloccato, la fottuta paura di perdere l’amore risolutivo, gli sguardi imbarazzati degli altri, il tormento della gelosia, la pena che non si assolve del ferire chi non lo merita, il traguardo ad un passo, appena lì, appena un po' più avanti, un passo sempre oltre il mio.
Ho rivissuto tutto: due anni in venti minuti d’inchiostrazione del corpo, sessione di scrittura cutanea senz’aria. Anche adesso, quando siamo particolarmente fecondi e un po' ce la tiriamo, lo diciamo l’un l’altra: ma come abbiamo fatto? Ma quanto siamo stati profeti? Quanti altri avrebbero mollato a parte noi? Dove abbiamo trovato la forza di resistere contro tutto, noi contro noi compresi?
Come se fossimo gli unici al mondo ad averlo fatto e il mondo, quello interiore, unico.
Ad un certo punto si fa silenzio. L’ago è fermo, Angelo immobile, Marcella muta. O forse no, forse dicono parole, fanno gesti ma il mio mondo, il solo che ho, brucia e pulsa, urla e piange e io ti cerco mamma, dove sei papà? Il braccio è rapinato dalla ferita, la mente è in ostaggio, si vede l’osso, il sangue esce, le linee sono sparite, inghiottite e trasformate in sudore, lacrime, saliva. È finita comunque e finalmente, sono a casa ma non faccio nemmeno in tempo a pensarci e già mi manca, quel dolore incontaminato. Come se fosse giusto così: c’è un prezzo da pagare sempre, non facciamola tanto lunga, così è.
Forse dovrei vergognarmi, anche solo un po', forse ho esagerato, ho messo tutti quanti in imbarazzo, non è che si reagisce così, un po' di controllo, un po' di toni bassi per dio ma in realtà non me ne frega niente di tutto questo: ognuno si becca quello gli tocca.
L’unica cosa che mi dispiace, poco poco a dire il vero, è aver dato l’impressione di star male per il riaffiorare tormentoso di una martoriata vita passata. Avrei dovuto fermare subito questa impressione che vedevo diventare certezza sempre più convinta nei loro pensieri, anche se, alla fin fine, chemmefrega? Problemi loro se pensano sbagliato, se sono palesemente in errore, io sono sempre io, qualunque visione gli attraversa la testa e il cuore, e non m’interessa proprio, non mi cambia niente come sono rappresentato dentro altre esistenze. Cazzi vostri, per dirla in breve.
Però, si sa come vanno queste cose, è complicato essere sempre coerenti con sé stessi e un po' ci ripenso: devo spiegarmi, devo raccontarmi bene, questa volta non me la posso cavare come sempre, scrollando le spalle e pensando ad altro di più interessante.
Lo devo dire con chiarezza ciò che non riesco a spiegarmi esattamente: non per pena passata ma per felicità presente sono precipitato restando comodamente sdraiato sul lettino. Quella percezione che per decenni lontani arrivava annualmente, momenti indimenticabili di pochi secondi, di luce assoluta, pace totale e poi spariva, così com’era giunta, all'improvviso, senza alcool, senza pastiglie, senza folgorazioni.
È che invece ora mi sono abituato alla vita nuova, come se fosse un diritto e una normalità possedere la luce dentro di sé che arriva da un altro sguardo; mi sono talmente familiarizzato ad essere amato come ognuno dovrebbe vivere almeno una volta che non so proprio più cosa vuol dire volersi bene, progettare insieme, la tolleranza.
L’unico mistero a questo proposito, ma proprio l’unico, è che non comprendo da dove giunga tutta questa benedizione: a volte compare per i cazzi suoi, così, senza avvisare, nessun segnale, zero presagi. Sono solo a casa in attesa che torni, a guardare video stra-nerd su YouTube e di botto non ho più paura, lo stomaco reclama solo comfort food, sono certo che tutto continuerà per sempre; oppure guardo i bambini in classe che mi guardano e penso che nessuno al mondo è più benedetto di me, corro fradicio di sudore su un cigolante tapis roulant dentro un garage polveroso con la saracinesca chiusa, estate e inverno, e vedo luce, solo luce, sempre luce.
In altri momenti invece sono solo a casa aspettando che rientri, osservo gli alunni, i miei bambini che sorridono, sorveglio il timer, regolo la velocità, modifico la pendenza e ho la chiara certezza che me lo sono guadagnato tutto questo, nessuno mi (ci) ha regalato niente, ho penato, sofferto e pagato per arrivare ad una nuova vita, è stato un percorso di scelte ripetute, notti insonni, dimagrimento forzato, persone allontanate, terapia e cura. Non riesco quindi a capire se è un dono o una conseguenza, se deriva da un qualche eterno o dalla mia terrestre volontà. Sono benedetto o determinato? Mi raggiunge arbitrariamente? È il legittimo guadagno per i miei investimenti esistenziali?
Sono immerso in questi leggiadri pensieri da quando ho riconosciuto il primo buchino sul braccio, che è partito da lì ma ancora sta girando di qua e di là dentro di me, quando un fascio di luce cala dall’alto, squarcia la stanza, mi avvolge di splendore. Piano piano, con lampante solennità, levito, e con me tutto il nero lettino. Alla mia destra e alla mia sinistra i due umani sono sempre lì, uno a lavorare sul mio braccio, l’altra con gli occhi umidi e lo sguardo perso per me.
Non li chiamo, li lascio lì dove sono, a terra, ma elevandomi li benedico, li assolvo dai loro peccati, forse ho anche impartito l’indulgenza plenaria, di certo si redimeranno grazie a me. Poi ridiscendo mite mite in mezzo ai mortali, non si sono accorti di niente, inconsapevoli come sono.
E proprio in quel momento il braccio diventa fresco, il bruciore si allevia ma non scompare dalla memoria; la quiete, quella che si prova a terra, non in alto, si appoggia su di me: un panno leggero e profumato mi pulisce dalle ferite.
Avanti e indietro, tutto intorno, chi mi ha prima massacrato ora mi sana, con premura, la rispettosa e nitida attenzione di chi sa cosa serve per stare bene.
È la mamma che sogno tenermi in braccio da neonato, sussurrando le più classiche e scontate parole d’amore, è il papà che gioca a fare la lotta e mi stringe forte, ogni volta un po' impacciato, è l’amore che mi bacia sulle guance intanto che le dico che niente vale come un bacio sulle guance, non c’è sesso che regga il confronto, è la luce che vedo dentro il buchino della serratura della porta del garage in cui corro, con le gocce di sudore che scendono dai capelli alla fronte, dalla fronte alle sopracciglia e poi sugli occhi, ad offuscare la luce che resta anche se non la vedo.
Perché adesso sosta e persiste, non se ne va, non è un dono, non è una conquista: è fissa lì, dentro di noi, il foro perenne nel muro trafitto dal chiodo buttato nella pattumiera, il contenitore degli scarti.
È la felicità purissima.
Nicola Ferrari
