Nicola Ferrari (Mantova), vive accanto ai bambini e alle persone in lutto.
Si occupa, riguardo l'esperienza della perdita, di formazione, ricerca e nuove metodologie di supporto (mariabianchi.it).
E' estremamente appassionato di J.S. Bach, Glenn Gould, Emily Dickinson, Vincent van Gogh.
Scrive, pubblica.


FABIO
le cose che non ho il coraggio di dirmi


Non andiamo, non andiamo.
Gliel’avevo detto un sacco di volte, porca miseria. È lontano, avevo ripetuto ancora e ancora, faremo tardi, molto tardi, sarà buio, torneremo stanchi, costa un sacco, non ci piace guidare, fa caldo, arriverà un sacco di gente tutta ammucchiata e io vado in ansia quando c’è un sacco di gente tutta ammucchiata, che cazzo ci fa tutta la gente ammucchiata che ti tocca e spinge e se non spinge ti sta vicino, troppo vicino, terribilmente vicino e se non ti sta vicino ti blocca la visuale e manca l’aria, lo spazio, la quiete, il silenzio, non si vede più niente se non esseri umani, uomini, donne, bambini, facce, occhi, braccia, gambe, denti, capelli lunghi, corti, neri, grigi, biondi, bianchi, castani, viola, verde e rossi, ma quasi mai, che poi si dice rossi ma sono arancioni, ci sono cosi poche persone con i capelli rossi, quelli che avevo io da giovane, peldicarota mi chiamavano per sfottermi, vaffanculo stronzo, io non li volevo i capelli rossi, sono un segno distintivo mi dicevano in continuazione, ti notano in mezzo a un milione, in mezzo a tutta la gente ammucchiata tu ti differenzi.
Ma falla tu la differenza coglione, che ci tieni così tanto ad emergere. Che ne sai di me? Che ne sai di cosa desidero?
Magari si guasta quella scatola con le ruote e, quando dovrebbe comportarsi da ciò che è davvero, va invece che è una meraviglia, magari ci becchiamo il virus del cagotto di questi giorni, magari annullano l’evento per tornado, cavallette, maremoto del lago. Invece niente: si va. Ci provo a insistere ma lei non replica, non spiaccica parola e quando le ho provate tutte, mi guarda, occhi negli occhi, e siamo a posto così.
Io non ricordo bene cosa mi è successo nelle due ore del concerto di Fabio Concato, so solo ciò che si è visto: un signore delicato, sensibile, ironico, che canta, presenta, interagisce e realizza un evento di quelli che dopo cinque minuti ti sembra di tornare indietro di cinquant’anni. E volevo dirglielo io, al secondo ritornello, per girare il coltello nella piaga e fare il saputello: hai visto?
Vedi?
Capisci?
Invece sto zitto, guardo, capisco, ma dentro di me, è tutto inaccettabile e scadente. Non c’è niente che mi corrisponda, nulla che mi appartenga. 
Una sola melodia ripetuta per venti canzoni, parole sdolcinate, mare, papà, pace, viaggio, sole, amore, dolore, sapore, il tramonto sul lago, le lucine degli smartphone nei momenti più commoventi, i cori sommessi di chi conosce a memoria ogni parole, le battute per sdrammatizzare, la camminata in platea cantando e dando la mano ai fans. Adesso però mi alzo e glielo dico, lo urlo a tutti, chemmenefrega: ehi tu, Fabio, io sono qua ma a me piace Bach. Chettecredi? Due accordi e ti reputi un musicista? Ahò Fabio, io aiuto gli altri da trent’anni, ti bastano due frasettine in rima per sentirti utile? Chi credi di impressionare? Sono intelligente io, molto più intelligente di te, c’ho il Master io, mica chiacchiere. Ma Fabio continua e nemmeno intuisce tutti questi miei pensieri: prosegue così, a vivere come ha sempre vissuto.
Ricordo ad un certo punto una luce viola nel teatro all’aperto, prima appare sommessa e poi s’ingarbuglia con l’acqua del lago, le chiappe doloranti depositate sul marmo, una coppia che parla ad alta voce quando la musica si alza e abbassa il tono tra una canzone e l’altra, l’aria all’improvviso fresca e vivace che arriva chissà da dove dopo venti giorni di caldo infernale dentro e fuori l’Italia. Ma più che altro sono le lacrime, le mie, a stupirmi: non perché scendono, ma come lo fanno. Non rimbalzano tra le guance e il naso, non sdrucciolano sino al collo come sanno fare da sempre: no, restano lì, appena sotto gli occhi, e si stabilizzano. Hanno trovato il loro posto, è dove devono essere: non c’è bisogno di andare in giro, di fare tanta scena, d’insistere e spostarsi. Si uniscono a me.
Nicola, mi dicono queste lacrime, loro che sono io, queste lacrime che scendono perché Fabio non ama Bach, scrive frasettine con rime, non ha il Master ed è meno intelligente di me: Nicola, sii tu. 
Smettila, mi suggerisce subito dopo Fabio (che si era accordato con le lacrime) a bassa voce, in quiete, come lo può dire il papà che ama al figlio amato che sbaglia. Smettila di essere altro. Tu non sei così. Le cose che non hai il coraggio di dirti, devi dirtele. Non perché è giusto, non perché è importante, responsabile e serio: perché è bello. Si vive meglio, più felici.
Non è vero che detesti il cibo, mi sussurra Fabio intanto che mi abbraccia, è che ti sembra di essere più interessante agli occhi degli altri.
Non è vero che te ne freghi dei complimenti e delle critiche, è che vuoi apparire interiormente inamovibile.
Non è vero che aiuti gli altri, è che ti fa bene sentirti importante.
Non è vero che subisci le conseguenze della mancanza dell’amore materno, è che sei entrato nella parte e ti piace restarci.
Non è vero che sei sensibile e fragile, è che sei un paraculo.
Non è vero che sei spirituale, con gusti elitari, profondo, è che così ti distingui dagli altri.
Non è vero che piacciono i bambini, è che ne hai bisogno.
Non è vero che ami, è che hai paura.
E mi scompagina il fatto che non sono pensieri da Baci Perugina ma è Fabio, è proprio lui, cioè l’essere così come è, che crea tutto questo: se fossero idee potrei controbatterle, se fossero interpretazioni ne avrei altre, se fossero consigli, ne darei altrettanti. Ma quando invece è una persona, quello che è, quello che ti racconta, in questo caso cantando, come puoi difenderti?
Mi sento io. 
Cioè: come dovrei diventare se ci riuscissi.
La figata è che non sono nemmeno dovuto cadere da cavallo per arrivare a tutto questo, il cielo non si squarcia e il prezzo per ottenerlo, biglietto, benzina, autostrada e panino, è accettabile. Dopo un’ora vorrei che fosse già finito, voglio uscire, non ce la faccio più, non reggo questa intensità: ogni nota, ogni sillaba mi risuona come se potessi abbracciare il fuoco e prendermi tutto il calore, il fascino, la luce, senza nemmeno scottarmi un po'. Mi sento sconosciuto, come se fossi sempre stato abitato da un altro, infinitamente lontano da me e mai così vicino. Sono entusiasta, tramortito, immobile. Ma, più di tutto, ricongiunto.
Riattaccato.
Rincollato.
Ricomposto.
Fine dei sinonimi.
La vita è una spuma, bianca, sempre più bianca e soffice, dopo ogni singola nota sempre più soffice; non ci sono più fuoco, fiamma e braci. Tutto il rovescio della medaglia che ho sempre considerato il prezzo inevitabile e giusto da pagare per essere come sono, non brucia, non c’è niente che s’incenerisce. La vita è semplice: ama, abbandonati, non temere. Io posso essere io come non sono mai stato.
E prima di finire, anzi, prima che io abbia il tempo di dirmi che vorrei non si concludesse mai questo concerto, Fabio si prepara all’ultimo saluto, si avvicina al microfono e così, davanti a tutti, mi chiama, perché lui quelli che hanno il Master li riconosce anche da lontano, e mi dice: domani mattina sarai come ieri. Gelo tra il pubblico, un po' d’imbarazzo, cala di colpo tutta la commozione della serata, delusione alle stelle.
Usciamo in silenzio, mezzi furtivi, con passo rapido per raggiungere l’auto ed evitare l’ingorgo, mano nella mano. Io sono un passo gasatissimo, l’altro furioso, quello dopo commosso e quello dopo ancora disilluso. Ho fame come se non avessi mai gustato il cibo prima d’ora e ho lo stomaco bloccato, voglio restare qui per sempre e non vedo l’ora di tornare a casa, ripenso ad ogni singolo momento della serata per fissarmelo e voglio dimenticarmi tutto subito, devo parlare e parlare per ore e resto muto.
Non la guardo, non ho niente da dire, non esisto, non sono io quello che ami. Intendo: certo che sono io, e che cacchio, ma non sono quello che pensavi io fossi. Anche perché anch’io non penso di essere quello che sono. Insomma: è un casino, uno strazio, una gioia immensa. Io non so che fare perché poi le ore proseguono, è quasi luce e siamo ancora in piedi. Domani mattina è qua davanti, e Fabio ne sa a pacchi per cui quando dice qualcosa c’è da stare in campana.
Dove sbaglio? mi chiedo. Perché non divento ciò per cui sono chiamato ad essere? E intanto che ci penso ricordo che dieci o quindici o venti anni fa questa roba qui l’avevo scritta in uno dei miei primi libri. Reminiscenza ingloriosa. Me le ripeto tutte le risposte, e sono pure articolate, in evoluzione, risolute. Ma alla fine approdo sempre lì: in quel posto dentro di me che so da una vita che devo raggiungere ma non ci arrivo mai. Non è niente di che poi: si tratta di una convinzione, una scelta, un impegno per essere più sincero, per lasciare che emerga me stesso da me. Chiacchiere vecchie come il mondo, valide sempre e per tutti, trite e ritrite. Però c’è qualcosa che m'impedisce di risalire in superficie e che non so definire in parole (e questo è un bruttissimo guaio). E nel mentre in cui mi trastullo con queste soavi riflessioni, lei si addormenta, il sonno di chi è felice, la testa sulla mia spalla. 
È quasi mattina.

                             Nicola Ferrari


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