Nicola Ferrari (Mantova), vive accanto ai bambini e alle persone in lutto.
Si occupa, riguardo l'esperienza della perdita, di formazione, ricerca e nuove metodologie di supporto (mariabianchi.it).
E' estremamente appassionato di J.S. Bach, Glenn Gould, Emily Dickinson, Vincent van Gogh.
Scrive, pubblica.


Chi chiude il sipario?


Se fossi solo un po’ diverso, glielo avrei già detto.
Ma sono fatto così, che ci posso fare? A volte mi viene una botta di disponibilità e gentilezza che quasi mi sembra di essere come non sono e penso: adesso lo fermo, adesso che è lì, dall’altra parte della strada a camminare con il suo solito incedere, tra il lento e l’attento, come se aspettasse sempre qualcosa che spesso non accade. Poi non se ne fa niente ma tanto già lo sapevo ancora prima di pensarlo.
Eppure, mannaggia Giordano, come fai a non immaginartelo? 
Come fai a non ricordarti quella mezz’ora che conservo da anni, che mi ritorna nella testa e nel cuore così, improvvisamente, quando meno me l’aspetto? C’era un caldo fastidiosissimo, con tutti i vestiti appiccicati (ma non è vero: ero io un po’ agitato) e stavamo venendo da te, in Radio. In quegli anni per i suzzaresi dire Radio Zero o Giordano Cucconi era assolutamente uguale: mi avevi già ospitato un sacco di volte a parlare dell’Associazione Maria Bianchi, di morte, lutto, sofferenza per cercare altre parole e pensieri assolutamente uguali. A volte qualcosa si riusciva a dire, a volte i tentativi fallivano.
Ma quel giorno accompagnavo da te Riccardo Cucciolla, nella mia banale intenzione per pubblicizzare un po’ lo spettacolo che un paio d’ore dopo avrebbe realizzato alla sala Polivalente, ora sparita, anzi trasformata, come Riccardo. Era venuto per leggere, declamare, recitare, interpretare o chissà che altro, poesie famosissime, di illustri sconosciuti, di adulti e bambini e regalarci così la possibilità di incontrare persone che mai si sarebbero avvicinate al nostro gruppo. Da dieci giorni la sala era completamente prenotata e avevo, insieme a tutti gli altri volontari, la precisa sensazione che quella sarebbe stata un’iniziativa fondamentale nella nostra vita associativa e personale.
Mi sbagliavo.
Quei 30 minuti o poco più alla radio, a guardare e sentire Riccardo e te, furono e sono per me molto più grandi. Non è una parola particolare ‘grandi’, né raffinata né originale ma esprime quello che vivo. Furono minuti grandi cioè larghi, difficili da abbracciare, impegnativi da contenere, che si potevano guardare solo spostando la testa dall’inizio alla fine, da una parte all’altra, come succede quando si segue una partita di tennis dal vivo. Mi sono reso conto, in quei minuti, come mai più mi è successo, come la Radio potesse essere una possibilità.
Una risorsa.
Un’occasione per condividere, conoscere, guardarsi senza vedere. La tua trasmissione ha contribuito a mantenere coesa una piccola cittadina della pianura padana perché offriva la possibilità di ascoltarsi e replicare. Aveva un ruolo e una funzione. Uno scopo.
In pochissimi minuti, dopo una mia breve introduzione, il colloquio tra te e Riccardo divenne assolutamente impossibile da interrompere: mi sembrava di assistere ad un incontro tra persone buone e sane, che scoprono di stimarsi a vicenda e che sono consapevoli che quello che fanno, in giro per il mondo e nel chiuso di una stanza, ha senso. Senza retorica, senza esagerazioni.
Dopo un po’ non ascoltavo più le parole che vi dicevate sulla serata, sul valore della poesia nella vita, sull’importanza di aiutare chi aiuta e qualcosa d’altro che ora non mi interessa neanche ricordare. Mi sembrava che semplicemente parlavate tra di voi per chi ascoltava: come succede tra amici, come accade quando non si vuole perdere un’occasione
Mi sembrava bello tutto quello che stava accadendo e mi sentivo proprio fortunato ad essere lì, muto, a vivere il tutto con una visuale che nessun altro poteva avere.
-Che uomo!– mi disse Riccardo all’uscita dalla Radio e se non l’ha detto l’ha pensato. E il ritorno a piedi, dalla Radio alla Sala, attraversando la piazza, fu tutto un chiedermi se si poteva sempre andare lì, a parlare liberamente, senza prenotarsi, senza concordare prima argomenti e durata, e quante volte alla settimana c’era questa trasmissione e perché il caro Giordano la fa così e chi glielo ha insegnato e che fortuna che avete ed è impossibile da trovare in Italia, fidati, io giro spesso, non esiste niente di simile, proprio niente. Io fremevo dall’impazienza di definire gli ultimi dettagli dello spettacolo: chi chiude il sipario? Quando arriva la fine?
Ma lui niente, come se tutto fosse sotto controllo: la prossima volta voglio tornarci. Mi porti vero?
Io credo che Riccardo abbia detto tutto questo ma forse il tempo ha inciso sui miei ricordi: però non esiste una persona più entusiasmante di lui, almeno io non ne conosco. E se non l’ha detto mi perdonerà perché se era così buono e retto su questa terra, come potrà ora non esserlo più? Dopo non molti mesi Riccardo morì: era prima di cena, io stavo appoggiato al calorifero tiepido in cucina, guardavo fuori dalla finestra perché aspettavo un muratore che venisse a sistemarmi un pezzo di casa traballante. Al terzo squillo risposi e fu mio papà a darmi la notizia per primo. Il muratore non arrivò e tutta la casa restò così, per tanti giorni ancora. 
Morì della stessa malattia che, in un altro nostro spettacolo, aveva letto in pubblico, utilizzando il diario dell’assistenza di una nostra volontaria. Venimmo a sapere alcune settimane dopo il funerale che Riccardo era perfettamente consapevole che quella lettura non era uno spettacolo ma la messinscena della sua fine.
Volevo telefonarti Giordano, volevo intervenire in diretta da te, volevo che tutte le trasmissioni si interrompessero per dare la notizia e ho fatto anche il numero: e tu, che rispondevi anche durante le trasmissioni, se l’ospite di turno stava parlando, non hai alzato la cornetta. E hai fatto bene.
Hai continuato ad accogliere appassionati di ogni sorta, segretari di partiti, aspiranti scrittori, volontari di associazioni e chiunque volesse dire ciò che per lui aveva senso.
Ecco Giordano, mannaggia, ecco perché vorrei fermarti ma non lo faccio mai: non voglio cedere alla tentazione di chiederti se hai ancora la registrazione di quel vostro incontro.
Non voglio chiedertela perché non me ne frega niente di risentire la voce, di ricordare l’evento, di capire meglio e per sempre i contenuti; non mi importa di quel che è successo ma di ciò che, grazie a voi, per merito di una Radio, mi conservo dentro, da qualche parte che prima o poi fisicamente si scoprirà dov’è.
E se per caso un giorno mi avvicino intanto che cammini, tra il lento e l’attento, dimmi tu per primo che no, non ce l’hai. Tanto, ascoltarla, che cosa cambierebbe?

                                                            Nicola Ferrari



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