Nicola Ferrari (Mantova), vive accanto ai bambini e alle persone in lutto.
Si occupa, riguardo l'esperienza della perdita, di formazione, ricerca e nuove metodologie di supporto (mariabianchi.it).
E' estremamente appassionato di J.S. Bach, Glenn Gould, Emily Dickinson, Vincent van Gogh.
Scrive, pubblica.


tacco punta 


Per regolamento non si può scavalcarlo né passarci sotto. Oltrepassarlo in qualunque modo diverso dal tagliare non è consentito. Spezzare è l’unica opzione prevista. L’ovvia conseguenza è che serve lo strumento giusto.
Analisi della questione: il cavo d’acciaio è spesso assai. Non importa che sia liscio, zincato o inox: comunque appaia all’occhio esterno, è vigorosissimo. I vari fili interni più leggeri che lo compongono creano una resistenza finale che è maggiore della somma delle singole difficoltà. Che siano intrecciati tra loro a spirale, come un esagono, in modo gerarchico o altro, conta poco: la forma esterna non incide sulla qualità. Invece è decisivo che siano tutti attorcigliati nello stesso senso di avvolgimento: così acquistano anche una gran capacità di torsione per cui si piegano ma non si spezzano.
Essendo questo cavo un passo avanti, disposto orizzontalmente, ad altezza ombelico, potrebbe tagliare realmente in due una persona, proprio a metà, se ovviamente insiste e spinge contro senza pensare che potrebbe esserci un’altra soluzione diversa dal ritrovarsi perennemente dolorante con una parte poi che si squaglia in alto e una più vicino alla terra. Ovvio che per evitare tale fine sia necessario risolvere il problema prima che il problema stesso perda di significato. Dotarsi di strumenti e strategie per evitare di spezzarsi al posto del filo è conditio sine qua non. Inutile stare a scervellarsi per calcolare il carico di rottura (del filo, non di chi lo deve spezzare) cioè la forza minima che è necessario applicare per giungere allo sfondamento della fune: alla fine, chi se ne frega dello sforzo che c’è da fare se si conquista il risultato atteso? Quindi: indipendentemente da quanto regge (sempre del filo si tratta) è necessario procurarsi uno strumento adatto al taglio. La pinza è ciò che viene subito in mente ma non va bene: non va bene proprio perché è la soluzione che appare per prima e non va bene perché semplicemente non funziona.
Se fosse così facile spaccare un filo d’acciaio, non ci sarebbero fili d’acciaio.
Serve invece la tronchese, che ha una forma simile alla pinza ed essendo la soluzione quasi identica è facile entrare in confusione: differenze minime ma efficacia superiore. Rispetto alla pinza sono disuguali il becco e le ganasce, quindi un po' tutto, quindi solo all’apparenza c’è similitudine. Basta stare attenti, senza neanche esagerare così tanto, per capire cosa serva e cosa no, null’altro.
Il taglio del problema, quello che rischia di tranciare in due chi non lo sa risolvere, deve esser netto perché non si tratta di afferrare e trattenere come avviene con la pinza ma di recidere, punto e basta. Con l’oggetto adatto e un’abilità che si può acquisire (non senza prove ed errori) è possibile lacerare anche reti metalliche e cavi elettrici, forzare lucchetti e catene e tante altre resistenze per loro natura più sempliciotte. Se poi si prende gusto, proseguire.
Purtroppo però c’è una complicazione, anzi un blocco: non è possibile dotarsi di questa soluzione per risolvere la questione. Ma com’è ma come non è, la faccenda comunque non cambia. Si può essere abilissimi e muscolosi ma le qualità individuali non bastano. Un po' deludente da vivere ma è così. Ancora punto e basta.
Ipotesi alternativa: se il cavo non si rompe affrontandolo col petto all’infuori e lo sguardo convinto, bisogna andare là dove il cavo stesso si sostiene. È lunghissimo, proprio davanti allo stesso sguardo convinto di prima, come quei recinti che racchiudono non si sa cosa: guardi a sinistra e non trovi l’inizio, guardi a destra e non vedi la fine. Forse anche perché il recinto è rotondo. Di solito ci si muove verso sinistra, si prosegue arretrando (è una forma di abitudine e amor proprio non volgere lo sguardo a destra). Se cammina cammina all’indietro si arriva va bene ma se diventa un’escursione chilometrica è legittimo che le balle ad un certo punto girano. Comunque sia prima o poi si raggiunge il palo che sostiene il filo: da lontano, appena appare, sembra un traliccio che si staglia sin nel cielo ma poi, avvicinandosi, cambia. Cioè: lui resta sempre uguale a se stesso, così com’era anche quando non lo si vedeva, ma la visuale cambia. E quindi sì, lui è lui, ma anche no, perché se ti appare diverso, in te cambia. Il fatto è che una volta arrivati il traliccio è davvero un palo, un palo come sono tutti i pali da sempre, né più né meno che un onesto, comune, legittimo palo ben piantato a terra e con un suo perché. La questione è che, essendo conficcato così a fondo, ha messo radici come gli alberi, ma quelle radici che alzano il cemento dai marciapiedi, s’infilano nelle fondamenta delle case, tagliano le strade da percorrere. Impossibile sradicarlo e nemmeno tagliarlo ad esempio a metà: troppo inalterabile, troppo convinto di se stesso.
Una bella soluzione sarebbe cercare un punto debole, ad esempio dove il filo si attacca al palo, magari perché è avvolto intorno e poi fissato con due chiodi o dove c’è un nodo, e se è stato fatto il nodo vuol dire che si può sciogliere. Sfortunatamente niente da fare neanche così: chi ha sistemato il tutto a suo tempo sapeva il fatto suo. Magari non pensava che qualcuno sarebbe arrivato sin lì però si è tutelato e organizzato in anticipo. Legittima è adesso la rabbia, quella proprio dei cani, perché il tempo stringe e soluzioni non ce ne sono, così come sono comprensibili lo scoramento o l’apatia (la differente reazione deriva da tutto quello che è successo prima d’incontrare il cavo). Anche qualche vario tipo di sedativo sarebbe accettabile per superare l’impasse ma qui è solo questione di coincidenze più o meno propizie. Comunque sia tra regolamento, acciaio, resistenza, strumenti vari, sinistra e destra, non si va da nessuna parte. E non succede niente. Neanche se si resta a pensare e patire per anni, tanti anni, pochi decenni.
È anche vero che nessuno ha detto che per forza bisogna sorpassare il cavo ma solo come c’è da fare. Se lo si fa. Perché si potrebbe invece salire sopra, in equilibrio, come fanno quei matti che attraversano due grattacieli in bilico su un filo d’acciaio vicino al cielo e poi scendono, montano il video per la rete e vanno a mangiarsi una pizza. La questione è che di acrobati nel mondo ce ne sono pochi e quindi anche questa possibilità non è realistica. Invece di scimmiottare qualcun altro così affascinante, che posa i piedi sul filo d’acciaio, un passo dopo l’altro, tacco punta, tacco punta, è necessario correggere l’andatura. Loro, gli esperti seducenti, questo modo di procedere lo chiamano ‘a papera’, al resto del mondo viene in mente Charlie Chaplin, due Oscar. Quello che per una vita cade e si rialza. Anche questa scelta non è comunque d’immediata realizzazione, figuriamoci i risultati. Serve, sia per salire sul filo, che si trova a cinquanta centimetri da terra ma è comunque un casino arrivarci, sia per muovere i piedi, un’altra mano. Qualcuno adeguatamente piantato nel mondo che ti stringe per bene tutto il palmo, ogni singolo dito e in qualche momento pure il polso, intanto che provi a proseguire in equilibrio sul cavo, rigorosamente verso destra.
A me è successo di salire. All’inizio l’unico pensiero è non cadere, poi godermi quella mano nella mano e dopo un po', quando appena appena sono a mio agio, scrutare da lassù. A dirlo così sembra ridicolo perché se fossi su un tavolino sarei più in alto ma non m’importa come appaio.
È che riesco a vedere.
Mio dio, che luce.
                               
                                   Nicola Ferrari
 
 

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