Nicola Ferrari (Mantova), vive accanto ai bambini e alle persone in lutto.
Si occupa, riguardo l'esperienza della perdita, di formazione, ricerca e nuove metodologie di supporto (mariabianchi.it).
E' estremamente appassionato di J.S. Bach, Glenn Gould, Emily Dickinson, Vincent van Gogh.
Scrive, pubblica.


TAPAS
ovvero 
l'intricatissima questione della resistenza al cambiamento


Abbiamo tutti un cavallo sulla via di Damasco.
Quando è toccato a me cadere, sono già seduto, e forse è per questo che non mi faccio male. Però me ne dico di tutti i colori, tipo: coglione, sei un coglione. Vergognati, chiedi scusa, chiedi scusa. E non è poi che sento una voce dall’alto che mi dice pentiti, pentiti dei tuoi voluti e reiterati errori, vergognati delle infedeltà e dei tradimenti, ravvediti per le innumerevoli codardie di cui ti sei macchiato. No, niente di tutto questo. Sono comodamente seduto in un baretto a Siviglia, a cercare un po' di fresco e liquidi per ripararmi dal caldo torrido: da quattro giorni io e mio figlio peregriniamo avanti e indietro per la città, nel consueto viaggio annuale, io e lui solo, come facciamo esattamente da quando ha smesso di succhiare il latte dalla mamma e poteva cibarsi di omogeneizzati. Negli ultimi anni, i giorni estivi che precedono la scelta del posto dove andare diventano per me sorgente d’inquietudine: questo sarà l’ultimo anno… è troppo grande ormai… alla sua età io non sarei andato manco se mi pagavano in viaggio da solo con mio papà. E adesso ci penso, papà, a tutti quei viaggi che non abbiamo consumato insieme, come accade quando sei a tavola e ogni portata, ogni singolo fottuto cibo rende la vita esclusivamente leggera. Nemmeno intuivo che tutte le strade non calpestate da noi due mi avrebbero reso una persona migliore o forse no, forse solo più felice, che è anche meglio. 
Lui invece non si tira indietro, resiste, propone dei posti da visitare e poi degli altri ancora, facciamo le semifinali e poi la finale per decidere e quando poi salpiamo, si adatta, mi segue, propone, condivide, parliamo tanto e da un po' di tempo, così, senza fatica, mi viene istintivo chiedergli dei pareri su di me, su quello che potrei fare e non fare, essere e divenire. Non glielo chiedo perché si senta importante, non è un modo per stimolarlo a prendersi cura degli altri, è che proprio mi fido, ci penso tre volte alle sue risposte, sono certo che mi dirà quello che ritiene vero e buono per me, senza nessun filtro, nessuna censura. Non fa proprio parte di lui indorare la pillola ma va dritto al sodo, piaccia o non piaccia ed è proprio per questa serena sincerità che non posso fare altro che ascoltarlo. Attentamente. Molto attentamente.
- Senor, qué quiere? – mi dice questa donna che serve ai tavoli ma sembra al primo sguardo 
che con il suo lavoro ne abbia viste di tutti i colori.
Questa volta sono pronto a rispondere, celere e sicuro mi sento, non come succede in tutti i ristoranti che non so mai cosa ordinare da mangiare quando arriva il cameriere e allora guardo Marcella e lei guarda me, ci fissiamo dritti negli occhi, poi io li abbasso e alla fine mi tira fuori dai guai.
Chiedo prudente e consapevole una birra, pensando che poi fosse finita lì ma questa tipa parla, va avanti, dà per scontato che capisco o che l’ascolto o che m’interessa comprendere. Invece non capisco niente, non l’ascolto e me ne sbatto di comprendere: non mi viene assolutamente in mente di farmelo ripetere, provare in inglese, tentare con i gesti, le dico veloce muchísimas gracias, no quiero nada mas così la chiudiamo. E’ durato cinque minuti quel tempo di grazia e pace quando stai in un posto con della gente ma nessuno si interessa di te e sei beatamente anonimo e ignorato dal mondo che se ne sbatte di ascoltarti o cercare di capirti: nessuno che guarda sul tuo tavolo con la coda dell’occhio per vedere che bevi o mangi, nessun cameriere che torna per chiedere cosa vuoi ancora, nessuno che ti fissa un po' insistentemente ma non troppo perché gli liberi il tavolo. Perché se sei da solo, e che cacchio, non puoi fermarti per godere che sei da solo. Se resti lì per forza è perché sei stanco, devi placare sete o fame, sei depresso, non hai un cazzo da fare, la tua vita è inutile, guardi gli altri che mangiano il gelato tanto per avere un po' di novità nella tua esistenza noiosa e malinconica.
Però poi, finalmente, arriva il liquido.
Ho chiesto la birra locale, quella proprio proprio della città (ma questo ‘proprio proprio’ non so come ho fatto a spiegarlo alla signora), quella che ha la fabbrica appena fuori dal centro, alla fermata immancabile del CitySightSeeing, con l’insegna che campeggia quasi in ogni posto dove c’è anche del solido. Che, immancabilmente, non richiesto, sopraggiunge. 
Se fossi stato io il cameriere avrei portato una nocciolina, due olive, tre patatine; perché se uno chiede da bere vuole liquidi, non solidi, e se uno vuole liquidi è perché ha bisogno, preferisce, sceglie o aspira a tutto ciò che non si tritura in bocca per farlo diventare, alla fin fine, quasi liquido. Invece arriva un vassoio dove il boccale quasi è un optional: ci sono questi tegamini, piccole padelline, pentoline varie e tutto ciò che finisce in ‘ine’ di una grandezza deliziosa, colorati con gli evidenziatori, sorridenti, e pure parlano. Dicono, con voce allegra e un po' alta, appena un po' più della mia: dai Nicola, godi di noi, assapora il mondo, gustatelo che è una figata. Ho cercato come si scrive questa frase in spagnolo con il traduttore su Google ma poi, mi sono detto: che è ‘sta cosa? Va bene che se le tapas parlano deve essere per forza nella loro lingua, ma solo in Spagna si assapora il mondo? In Italia no? In provincia di Mantova nemmeno? Nella mia casa neanche? In quella dove sono stato e nelle altre che ho avuto? Dove sto adesso neppure? E che vi credete voi, ho detto rivolgendomi in eurovisione alla Spagna intera in mio ascolto, con fare diretto e duro ma senza provocare: io non so essere felice della vita?
Questi simpaticissimi, ridotti contenitori di gioia allo stato solido non cercano di conquistare il tuo sguardo, non scimmiottano il pentolame ma con dimensione rimpicciolite, non aspirano a farti dire wow oppure che carini o deliziosi. Valgono per il fatto che sono così, senza scopiazzare niente e nessuno. Hanno senso indipendentemente da tutto il resto del mondo. E sono pure in minoranza, in netta minoranza, perché se esci dalla loro madrepatria, ma dove le trovi altrove? Fottitene di quello che il mondo pensa di te, mi dicono queste forme di metallo, rame, acciaio e non so che cosa, resta nella tua madre(patria), mormorano.
Ognuna di queste tapas, ed è proprio qui che cado da cavallo, contiene una quantità, porca miseria, una così esatta dose di solido da trangugiare che m’illumina mi manchi mamma, mi rende felice dove sei papà, mi fa persino male al cuore che si riempie di fibrillazioni e lo sento che non va bene o almeno non è come al solito perché il cuore batte ma batte con un ritmo più felice, veloce volevo dire veloce, un ritmo più veloce.
Voglio vivere d’ora in poi solo di tapas - è un giuramento solenne, mica chiacchiere, voglio vivere con quella misura lì, colorata, allegra, esatta che ha senso senza chiedere il consenso al mondo e che scopro come se non le avessi mai viste prima (ma non è assolutamente vero).
Mi corrisponde perfettamente, quella è la quantità perfetta e la presentazione del cibo totalmente adatta a me: è come sbocconcellare di qua e di là, godere a piccoli sorseggi della vita, provare e passare ad altro senza rimorsi, non avere l’ansia di finire il piatto o la preoccupazione di lasciare tutto sulla tavola, di deludere chi ha preparato, di sentirsi lo stomaco bloccato, la bocca secca e quella costante, lieve consapevolezza del sapere che se per un qualunque motivo quel cibo mi disturba, il mio corpo, non io, il mio corpo, lo rifiuta definitivamente e non ci saranno seconde possibilità per mesi a venire.
La chica mi guarda non così perplessa come avrebbe dovuto essere perché io ero lì imbambolato e forse sorridente a guardare dei pentolini ma lei, appunto, ne sa una più del diavolo: mi sorride, perché è contagioso il sorriso, lascia tutto lì, mi sembra con gesti un po' rallentati, come se volesse allungare un attimo questo momento e se ne va da altri. Sinceramente non ricordo di preciso cosa c’era di cibo ma d’altronde ero così felice, ma così felice, come quando ti sogni che abbracci qualcuno che non c’è più, ti svegli e per qualche secondo non hai capito che era un sogno perché quella sensazione si allunga oltre il sonno, se ne frega se devi andare a lavorare o a fare la pipì, e ti rende schifosamente felice. Non t’interessa niente della gente che muore di fame e di guerra, di chi non ha i soldi, dei disperati e malati, non te ne frega niente della vita se non che questa felicità duri almeno un attimo, un attimo ancora, per viverla qua, sulla terra, questa schifosa felicità.

La vera felicità rende semplici – ha scritto qualche saggio, ovviamente dall’India, ovviamente di molti anni fa perché è più credibile, e che adesso si trova su qualche post di Facebook, dentro un’immagine con l’immancabile tramonto sullo sfondo lontano. Se è vero, fanculo tu e tutti i saggi. Perché non è che ci vuole una grande scienza per prendere la forchetta e iniziare da una qualunque di queste tapas che ho davanti e che mi hanno lasciato interdetto. Eppure, ancora prima di mettere in bocca qualcosa, ancora prima di prendere la forchetta, ancora prima di scegliere da dove iniziare, sopraggiunge un ‘ma’.
Ma se mi piace così tanto intanto devo cambiare a casa tutte le casseruole, pignatte e menate varie altrimenti la magia finisce e si ritorna come prima. E devo comprarle da qualche parte, non sarà così facile. Ma dopo che si fa: non mangiamo tutti dagli stessi piatti, non usiamo le stesse pentole? Poi c’è da cucinare, bisogna preparare più pietanze nello stesso momento perché il segreto è proprio lì, nella quantità minima e nella varietà. Ogni pasto preparare quattro - cinque cibi diversi è una rottura di coglioni fotonica, una perdita di tempo inaccettabile, ho altre priorità e non posso chiedere che qualcun altro lo faccia al posto mio. E metti che comunque queste questioni si risolvono ma se mi abituo così poi ogni pranzo al ristorante, ogni cena da amici, ogni momento diverso diventa un casino perché lo so io che poi non riesco a mangiare come gli altri (cristiani). Che facciamo quindi? Basta uscite, non invitiamo nessuno perché le porzioni di pasta hanno qualche decina di grammi in più di quello che io voglio e i piatti qualche centimetro di diametro in meno? E facciamo pure che superiamo anche questo problema ma se poi davvero la mia non è un’infatuazione momentanea, sul serio, proprio veramente io mi metto a mangiare di più e con gusto e i sapori li sento, li aspetto, li vado a cercare? Cosa mi succede allora se non sono più quello che sono sempre stato? Non è che poi se scopro il piacere del cibo poi questa storia si allarga e scopro altre beatitudini? Perché minchia se sposti un quadro, tutta la parete cambia. Vuoi vedere che poi gioia dopo gioia, io scopro che mi sono fottuto decine di anni e avevo la soluzione a due ore e mezza di aereo? Lo so poi come funzionano ‘ste cose: scopri un piacere, ti fa bene ma così bene che non ti basta più quello ma vuoi sentire le stesse emozioni anche in altri momenti e poi più intense, sempre più intense perché gioia attira gioia. Diventa una droga, mi drogo di letizia e…tac, neanche me ne accorgo ed ecco la dipendenza, detta anche sottomissione. Sottomesso alla gioia divento.
Mi cambia il modo di pensare, le priorità si modificano, nulla è come prima: dove sarò io in tutto questo, come mi sentirò a stare con qualcuno che non conosco? Poi magari non mi piace neanche un po' questa nuova persona ma è tardi per tornare indietro perché, dai, non c’è rehab che tenga per disintossicarsi dalla gioia. Gli altri inoltre: cosa penseranno di me gli altri? Quelli che non sono io, intendo. Si erano fatti un’idea di me, non m’importa quale, ma saranno pure affezionati alle loro idee, no? Metti caso che divento ai loro occhi (non riesco nemmeno a pensare se fosse così anche per il cuore) un po' meno distante, un po' più affettuoso, meno impegnativo, più espansivo. Che ne sarà di quella parte di me che ha sempre vissuto in loro? Lasceranno il posto alla novità? Se così fosse è come se un sacco di persone (non è vero neanche questo, è la seconda bugia, non sono un sacco ma quattro o cinque) eliminassero per sempre quel me che adesso non c’è più. Ma scusa, anche io mi sono affezionato al modo che hanno avuto gli altri quattro o cinque di vivermi per anni e anni. Dove c’è scritto che si gioisce assaporando il mondo? Chi l’ha detto? San Paolo forse?
Succederà così: non faccio neanche in tempo a capire bene tutte queste rotazioni che mi ritrovo a non aver più bisogno dei bambini, mi scivola tra le mani la passione per la musica, scrivere mi annoia, chissenefrega dell’associazione, problemi vostri e poi la mamma e il papà diventano fiammanti di amore dentro di me e sono più quieto, quella quiete che ti lascia il cervello in silenzio, ti fa vedere i tramonti e dire wow anche se è la centesima volta, la quiete che ti fa vivere, proprio vivere, non pensare o sperare, quello che sino a poco prima erano trite e ritrite frasi dal solito Facebook: ‘sii grato alla vita ogni mattina, ascolta la pace che c’è dentro di te, sorridi alle persone che incontri, cammina in mezzo alla natura, lascia andare ogni rimpianto, resta ogni giorno un po' in silenzio ma soprattutto, non avere paura’. 
E visto che sfiga attira sfiga, insieme a tutto questo disastro, pure il bisogno compulsivo di stare bene si attanaglia dentro di me: perché quando ti arriva, sono cazzi. Non ci si può più accontentare, non ti basta la solita dose di piacere quotidiano ma la tua anima ne chiede di più, sempre di più, e proprio come i drogati va in astinenza quando non la ricevi. Mi vedo già, poche settimane e la durata e l’intensità del godimento saranno così potenti e assolutamente necessarie per sopravvivere che niente mi basterà più. Pochi mesi e avrò sperimentato tutte le possibilità possibili, un anno, dai, massimo un anno e dovrò andare in terapia, prendere medicinali, sarò senza lavoro, senza passioni, senza fede. Avrò solo chi mi è ora accanto ma quanto questa prova sarà sopportabile per lei? Quanto amore si può pretendere da chi si ama?
- Caballero, su móvil está sonando, me lo dice quasi rimproverandomi perché le tapas sono 
ancora tutte lì, intatte, alcune si sono pure raffreddate e la birra è diventata calda pipì di gatto.
- Papi, ho fame, mi dice Andrei che proprio oggi aveva deciso di riposarsi un po' nella camera
dell’hotel dopo le camminate dei giorni scorsi con punte di 42°.
- Ti vengo a prendere tesoro e usciamo.
- No, dai, questa sera relax. Portami quello che vuoi, mi va bene tutto.
E’ figlio mio? ho pensato per un attimo.

Cammino verso Andrei, l’immancabile bottiglietta d’acqua in una mano, il sacchetto con tutte le tapas ben incartate dall’altra. Da una parte i liquidi, dall’altra i solidi. Pesano uguali. 
Arrivo e un sorriso, quello breve, appena abbozzato, tipico degli adolescenti che non devono manifestare eccessivamente le emozioni, è chiarissimo sul suo viso. Apre i vari sacchetti con curiosità, desiderio e piacere. Una felicità semplice.
Lo avviso che alcune ormai si sono raffreddate ma te le faccio scaldare, vado giù nella hall e vedrai che trovo il modo.
- No, va benissimo così, mangio quello che c’è, sembra tutto buono.
Non gli dico che non ho mangiato altrimenti inizia ad offrirmi qualcosa.
L’osservo senza che se ne accorga: degusta tutto, guarda cosa mette in bocca, annusa e mi sembra quasi che voglia prima presagire ciò che proverà poi. 
Subito no ma a pancia piena (la sua) glielo chiedo, glielo chiedo proprio se è felice. Conosco già la risposta e infatti la prima domanda è solo un aperitivo. Il perché voglio sapere. La risposta sarà come lui: precisa, sintetica, netta. E poi ci sarà poco da discutere, riflettere, approfondire. 
Dovrò ascoltarlo attentamente.
Molto attentamente.


                                 Nicola Ferrari 


Share by: